mercoledì 22 dicembre 2010

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni


Regia di Woody Allen
Produzione: USA/Spagna 2010 Medusa
Titolo originale: You will meet a tall dark stranger
Sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Montaggio: Alice Lepselter
Scenografie: Jim Clay
Genere: Sentimentale
Con: Naomi Watts, Anthony Hopkins, Josh Brolin, Freida Pinto
Durata: 98'






"Lavoro sempre per disperazione, per paura. Finisco un progetto e non voglio tempo libero [...] così non devo starmene seduto su una sedia a pensare in quale terribile situazione si trovano gli esseri umani." Con questa dichiarazione d'intenti Allen presenta a Cannes il suo ultimo lavoro, e ci indica la chiave di lettura delle sue ultime pellicole: il lavoro indefesso in cui si rifugia, la necessità di una routine cinematografica come via di fuga dal pessimismo comico di cui è permeato ed il cinismo che lo contraddistingue.
In quest'ottica stakanovista filmica, appare chiaro che un calo fisiologico sia ammissibile nella lunga filmografia recente del genio newyorkese, ancor di più se ciò avviene dopo l'ispirato “Basta che funzioni” che aveva rispolverato il Woody Allen d'annata con una pellicola moderna e memorabile.

Per questa nuova pellicola Allen torna nuovamente in Europa, precisamente a Londra e a settantacinque anni suonati sceglie nuovamente di raccontare le nevrosi, i turbamenti e le angosce di due coppie in crisi. La prima rappresentata da Alfie (Anthony Hopkins) e Helena (Gemma Jones) e la seconda dalla loro figlia Sally (Naomi Watts) e suo marito Roy (Josh Brolin). Tutti e quattro alle prese con nuovi amori, nuove prospettive ed una folle ed insana speranza di migliorare le proprie vite ormai in preda alla noia e la vacuità esistenziale. La nuova prospettiva alleniana indica nell'irrazionalità e nella magia la via per l'illusione di un briciolo di felicità “perché a volte le soluzioni magiche sono meglio delle medicine”.

Partendo da una citazione di uno shakespeare nichilista (“..la vita non è altro che rumore e furore. Priva di ogni sostanziale significato”) ci conduce in un intreccio narrativo che tocca i più svariati argomenti: dall'arte alla crisi creativa, dalla maternità alla vecchiaia, dal romanticismo al sesso, percorsi con la presenza stabile sullo sfondo della magia cialtronesca e la sua illusione. I temi portanti dei suoi recenti lungometraggi si ripropongono e si accavallano anche in questo lavoro, così come le scelte stilistiche e le caratterizzazioni dei personaggi, alter ego dell'autore nelle sue varie età, che sembrano stancare o non interessare lo spettatore meno smaliziato.
Ci si ritrova quindi ad oscillare tra l'appagamento e l'insoddisfazione, tra soluzioni eleganti e recitazioni impeccabili, a dialoghi poco rapaci e trama circolare monotona e senza sussulti.
Ma ciò che più appare evidente in questa pellicola è la mancanza di sarcasmo, del gusto della battuta sagace ed irriverente, un film amaro e stanco il cui confine tra farsa e tragedia è quanto mai labile, lasciando che le linee narrative si sfaldino fino ad un improvviso e leggero finale in cui la morte - il cui bel titolo originale metaforico allude (“Incontrerai uno sconosciuto alto e nero”) - aleggia sinuosa danzando sulle illusioni che sono l'unico pasto di cui possiamo cibarci in questa realtà, per avere una sensazione lieve e concreta di felicità.


VOTO 6

martedì 14 dicembre 2010

The social network


Regia di David Fincher
Produzione: USA 2010 Sony Pictures
Sceneggiatura: Aaron Sorkin
Fotografia: Jeff Cronenweth
Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall
Scenografie: Donald Graham Burt
Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross
Genere: Biografico
Con: Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake, Max Minghella
Durata: 120'





Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg), il più giovane miliardario della storia e creatore del social network più popolare ed utilizzato del globo, nel 2004 era solo un promettente studente di Harvard dalla vita sociale esigua, rifiutato da tutte le associazioni elitarie della facoltà e scaricato dalla ragazza.
In una nottata, offuscato dai fumi dell'alcool e dell'orgoglio ferito mette online tutte le foto delle ragazze dell'ateneo di Boston prelevate dall'archivio, con lo scopo di far votare le più attraenti e scartare le più abiette. I computer del campus in breve intasano la linea ottenendo un successo immediato e sorprendente. Multato per aver violato i sistemi di sicurezza dell'università l'impresa di Mark non passa inosservata: due facoltosi studenti, i fratelli Winklevoss, atleti di canottaggio, lo contattano per dar sviluppo ad una loro progetto.
L'idea non avrà seguito ma basterà a far scoccare la scintilla al geniale Mark che prendendone spunto comincerà a lavorare all'odierno Facebook. Il successo è repentino e smisurato e la battaglia legale che ne seguirà sarà spietata e senza tregua.

Questo non è un film su facebook. È bene chiarirlo subito e sgomberare il campo da probabili fraintendimenti.
Questo è un film che parla dei nostri tempi, del nuovo capitalismo americano rampante, del “new american dream” che parte dai campus universitari per conquistare il mondo, sia virtuale che reale, imprenditoria abile e scaltra ad intercettare le pulsioni ed i desideri moderni di una nuova generazione di utenti.
È la genesi di una parabola che ha modificato per sempre le nostre abitudini, la sintesi filmica di un nuovo concetto di socialità e l'analisi cinica e sfrontata di come tutto ciò sia nato e si sia potuto espandere.
Solo Aaron Sorkin (Codice d'onore/La guerra di Charlie Wilson) probabilmente il miglior sceneggiatore hollywoodiano attuale, poteva imbastire una trama così sottile e perversamente ironica, alle prese con la difficile impresa di rendere appetibile uno script complesso e potenzialmente poco cinematografico come il romanzo “Miliardari per caso – L'invenzione di Facebook” di Ben Mezrich da cui la pellicola prende spunto.
Il suo miglior pregio è quello di esser stato capace di lasciar fuori il social network ed il fenomeno sociologico derivante, per andare ad indagare il privato dei protagonisti della vicenda (giudiziaria e non) e le loro relazioni interpersonali con un film “verboso”, poggiato su dialoghi memorabili e brillanti, concentrando lo sguardo sulle dinamiche che hanno prodotto la piattaforma sociale che ha sconvolto la rete ed il globo.

Dal suo canto David Fincher si conferma uno dei maggiori registi della sua generazione, dopo l'exploit con Seven, Fight Club, The Game e Zodiac e qualche passo falso come Panic Room o il recente Il curioso caso di Benjamin Button, torna ai livelli che gli competono grazie ad una regia moderna e dinamica, abile a destreggiarsi tra i vari piani temporali della vicenda e non rimanere impelagato nell'uso massiccio di dialoghi che forma la struttura portante della sceneggiatura di Sorkin.Bravo ad adottare il punto di vista di tutte le parti coinvolte senza trappole retoriche e smarcarsi dal legal-drama virando verso una sorta di thrilling sentimentale.
Tra gli attori Jesse Eisenberg (Adventureland/Benvenuti a Zombieland), il nuovo astro nascente degli Studios, qui dà conferma delle sue doti interpretative con un ruolo non facile, tutto giocato sul contenimento e sulle sfumature, così come l'altro golden-boy Andrew Garfield, che interpreta l'amico e co-fondatore Eduardo Saverin e sarà il nuovo protagonista del reboot di Spiderman, anch'esso convincente e perfetto nella parte, quanto il sorprendente Justin Timberlake a suo agio nei panni del dirompente Sean Parker, creatore di Napster e spauracchio dell'industria musicale.
Una menzione particolare anche alla cupa e ammaliante colonna sonora del duo Trent Reznor-Atticu Ross.

Un film dei nostri tempi, che sviscera nelle moderne inclinazioni sociali, che sottolinea una volta per tutte quanto la vita in rete abbia la stessa rilevanza di quella reale, ormai un segno tangibile ed incontrovertibile del nuovo decennio.


VOTO 7,5





giovedì 25 novembre 2010

Once


Regia di John Carney
Produzione: Irlanda 2006 Sacher distribuzione
Sceneggiatura: John Carney
Fotografia: Tim Fleming
Scenografie: Tamara Conboy
Montaggio: Paul Mullen
Musiche: Glen Hansard, Marketa Iglova
Genere: Drammatico, Musicale
Con: Glen Hansard, Marketa Iglova
Durata: 90'





A Dublino c’è un ragazzo che si esibisce per le vie del centro con la sua chitarra, di sera quando la gente si dirada, intona le propria ballate d’amore e viene notato da una ragazza straniera che vende rose. Da questa semplice ed apparentemente esile trama, si dipana una storia romantica e leggera tra un musicista di strada ed una pianista dell’est che dura solo l’arco di qualche giorno.
E’ insolita la scelta di un film che parla d’amore scegliendo con tratto minimale e documentaristico di farlo principalmente attraverso la musica, creando una sorta di musical atipico.

John Carney ci regala questo piccolo gioiello cinematografico narrando una vicenda che ha molti tratti autobiografici, e nel quale la colonna sonora diviene anche sceneggiatura, instaurando un legame accattivante ed imprescindibile tra storia e musica, lasciando a quest’ultima spesso la priorità di accompagnare le situazioni più coinvolgenti, riuscendo a caricarle emotivamente ed a descriverle in maniera più incisiva che con le parole.
Le riprese son state fatte con la macchina da presa a mano, con l’uso di luci naturali anche di notte,le inquadrature risultano naturali l’obiettivo con discrezione non aggredisce mai l’intimità che s’instaura tra i protagonisti,quasi a non voler rompere l’incantesimo o disturbare.
Il regista irlandese si avvale della convincente prova attoriale del muscista Glen Hansard, frontman di una band dublinese nella quale militava anche anch’egli: i The Frames, e Marketa Iglova anche lei musicista, entrambi attori non professionisti.
Stupisce ed emoziona questo pellicola costata solo 100.000 euro, in selezione al Sundance Festival,e capace di vincere un Oscar per la migliore canzone originale “Falling slowly”.
Si crea un’alchimia delicata e sincera tra note ed immagini, che inebria e culla lo spettatore consegnando al silenzio tutta la poesia e la malinconia di due solitudini che s’incontrano, si sfiorano e si abbandonano.


VOTO 8







lunedì 15 novembre 2010

Last Night


Regia di Massy Tadjedin
Produzione: USA 2010 Gaumont
Sceneggiatura: Massy Tadjedin
Fotografia: Peter Deming
Montaggio: Susan E. Morse
Musiche: Clint Mansell
Genere: Drammatico
Con: Keira Knightley, Eva Mendes, Sam Worthington, Guillame Canet
Durata: 92'






Joanna (Keira Knightley) è una scrittrice in crisi d'ispirazione dopo il suo primo romanzo ed è sposata da quattro anni con Michael (Sam Worthington) che progetta ristrutturazioni di immobili commerciali. La loro è una vita agiata e felice che dividono in un lussuoso appartamento di Manhattan, durante una cena di lavoro Joanna conosce l'avvenente collega di suo marito, Laura (Eva Mendes) i cui sorrisi e sguardi fugaci per Michael non passano inosservati. Una volta rincasati tra i due nasce una discussione animata attenuata solo qualche ora più tardi da una colazione distensiva che sembra placare le incomprensioni alla vigilia di un importante viaggio di lavoro di Michael che lo terrà impegnato per qualche giorno. Il giorno seguente metterà alla prova il loro matrimonio e le loro certezze, Joanna infatti per caso incontra un suo vecchio amore, Alex (Guillame Canet) mentre Michael è alle prese con il fascino avvenente di Laura e le sue avances; ognuno dovrà fare i conti con i propri sentimenti percorrendo delle scelte che potrebbero mettere a repentaglio la loro relazione.

Il film dell'esordiente regista irano-americana Massy Tadjedin - che ha aperto il Festival del cinema di Roma – è un raffinato e tortuoso sguardo sulla tematica classica dell'infedeltà coniugale. E' un film fatto di immagini e silenzi, di tonalità e primi piani che privilegia l'aspetto visivo, forte di un décor elegante a discapito di una sceneggiatura che seppur intrigante manca di impeti e coraggio, accontentandosi delle comodità seducenti dei cliché.
Eppure la messa in scena del mal d'amour contemporaneo è sontuosa, intima ed intrigante. 
Mossa su due piani narrativi le vicende ed i tradimenti ci appaiono per ciò che sono, senza giudizi morali o particolari prese di posizione; le situazioni sono costruite lentamente e con dovizia, a volte con eccesso di zelo forse, dilatando e frammentandone il ritmo per privilegiare le atmosfere.
L'utilizzo della macchina da presa della Tadjedin è sinuoso, con una particolare predilizione per i primi e primissimi piani che imprimono una profondità emotiva di gran lunga maggiore che nei dialoghi o nelle sequenze descrittive. La regista sembra accarezzare i suoi personaggi, li accompagna adagio nei loro percorsi e nelle loro scelte cercando di appropriarsi delle sensazioni e le emozioni, del pathos sottile che sciorinano le due vicende, lasciando allo spettatore il compito di giudicarne i comportamenti ed immaginarsi le conseguenze che comporteranno le scelte di una notte.
E' un film introspettivo e sospeso, emotivo più che cerebrale così come lo è ogni tradimento, che va ad indagare tra le pieghe nascoste del desiderio e delle relazioni cercando di narrare un tema classico con piglio e sensibilità contemporanea.
Seducente.

VOTO 7

lunedì 25 ottobre 2010

L'amore non basta


Regia di Stefano Chiantini
Produzione: ITA 2008 Mediafilm
Sceneggiatura: Stefano Chiantini, Rocco Papaleo
Fotografia: Giulio Pietromarchi
Scenografie:
Montaggio: Cristina Flamini
Musiche: Piernicola Di Muro
Genere: Commedia, Drammatico
Con: Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Tiberi, Rocco Papaleo
Durata: 84'





Martina (Giovanna Mezzogiorno) è un’assistente di volo, durante un turno di lavoro s’imbatte in Angelo (Alessandro Tiberi),un ragazzo che ha paura di volare, che lascia un diario d’amore sul suo sedile. Il diario parla della loro storia, perché i due si conoscono, sono dello stesso paese e si amano,e lei si abbandona a quelle parole prima di riconsegnarlo, affrontando tutti i fantasmi e le incertezze di quella relazione così incostante, resa difficile ancor di più dalla “presenza” ingombrante del padre di lui (Rocco Papaleo),e dalle esuberanze del patrigno di lei (Alessandro Haber).

Il film del giovane regista abruzzese Stefano Chiantini, ambientato nella regione natìa racconta una storia d’amore sofferta soffermandosi sulla componente psicologica e sociale, che spesso riesce a compromettere le ambizioni e la sincerità di un sentimento, che come suggerisce il titolo a volte non basta.
E’ un film coraggioso, che ha il merito di cercare una linea originale, dando spessore ai personaggi, raccontandoli fino ad un certo punto per poi lasciare aperti spiragli allo spettatore, che narra con piglio leggero e intimo il continuo cercarsi, sfiorarsi e poi perdersi tra due ragazzi alla prese con le difficoltà e la precarietà delle loro vite.
E’ un film diverso, rispetto le storie d’amore convenzionali raccontante sul grande schermo, e per questo forse meno fruibile, ma più intenso, perché offre un punto di vista introspettivo, ermetico su una vicenda complessa e attuale.
Bravi gli attori, su tutti una splendida Mezzogiorno, che riesce a miscelare la fragilità travestita da sicurezza del suo personaggio, attestandosi anche in queste piccole produzioni, come una delle migliori attrici della scena nazionale e non solo.

Chiantini ci regala una poesia trasposta su pellicola, nell’impervio compito di raccontare per immagini gli stati d’animo che albergano in ognuno di noi, condendo il tutto con simbolismi e romanticherie in bilico tra dramma e commedia, mai banali, senza soffermarsi su un baricentro emozionale, ma dando respiro alla storia concentrandosi sui volti dei personaggi, assunti a veri paesaggi del film.



VOTO 7



Intervista al regista Stefano Chiantini


Stefano partiamo innanzitutto dal tuo percorso umano ed artistico, in che modo ti sei accostato al cinema, come sei riuscito a coltivare questa passione e cosa ti ha spinto ad indirizzarti proprio sulla regia?


La passione per il cinema l’ho avuta da sempre. Quando mi sono trasferito a Roma per studiare – mi sono laureato in lettere e filosofia – ho frequentato dei corsi di sceneggiatura. Le storie che ho scritto in quei corsi hanno suscitato l’interesse degli insegnanti che mi hanno spinto a portarle in giro dai produttori, e così è partito tutto.
Ho scelto di occuparmi della regia perché quello che racconto è molto particolare, nel bene o nel male è molto autoriale, legato al mio modo di vedere le cose, ed è questo un po’ il mio limite ed il mio pregio al tempo stesso. Quello che mi hanno sempre rimproverato, anche nelle scuole di cinema, è di scrivere bene solo ciò che voglio e che mi appartiene, in questo sono molto regista e poco sceneggiatore.

Il pubblico ti ha conosciuto ed apprezzato con il tuo ultimo film L’amore non basta - uscito nelle nostre sale l’aprile scorso - tra i quali figuravano alcuni attori italiani di prim’ordine come Giovanna Mezzogiorno, Rocco Papaleo ed Alessandro Haber, ma non rappresenta il tuo esordio, bensì il tuo terzo lungometraggio. C’è una poetica o una sensibilità che accomuna i tuoi film? E quanto di autobiografico finisce c’è nelle tue storie?

Come ti dicevo prima c’è un modo di vedere le cose che è molto mio. Mi piace la sospensione, in un certo senso la precarietà dello sguardo, il non prendere posizione e questo è presente in tutti i miei lavori. A me poi piace raccontare uno spaccato di vita e non storie che iniziano e finiscono, insomma non m’interessa uno sviluppo drammaturgico lineare causa ed effetto, ma più atmosfere e sensazioni.
Ad esempio quando scelgo un soggetto, o meglio quando un soggetto sceglie me, spesso ad influenzarmi è un’atmosfera, una frase, uno sguardo…da lì poi parto per costruire i personaggi e la storia che ruota attorno ad essi. Difficilmente quindi parto da una storia.

Il film è girato in Abruzzo, il posto in cui sei nato e cresciuto, quanto c’è della tua terra nelle tue opere?

La mia terra m’influenza molto, com’è naturale che sia; la porto sempre con me, la conosco e questo mi aiuta tantissimo. Mi muovo meglio nel mio territorio, un territorio materiale e spirituale, ed è qui che riesco a trovare le mie atmosfere, i personaggi giusti, le verità che cerco. La mia terra mi fa sembrare tutto più reale e concreto e mi allontana dal vuoto e l’effimero che anima un certo tipo di cinema.

Ci racconti qualche aneddoto divertente legato alle riprese del film?

La cosa più divertente è che ogni volta che arrivavo sul set trovavo difficoltà ad entrare all’ingresso, specie quando andavo da solo: nessuno mi prendeva per il regista del film, sai sono molto giovane e quindi spesso mi bloccavano. Una volta una ragazza è venuta a chiedermi come mai tutti gli attori parlavano con me che ero solo una comparsa. Ho dovuto spiegarle che ero il regista ed è stato complicato perché non ci credeva.

Quali sono i film che ami di più ed i registi che apprezzi maggiormente ai quali ti ispiri in un certo senso?

Diciamo che ci sono momenti in cui amo un certo tipo di film ed alcuni registi, non ho preferenze o canoni fissi, piuttosto sono influenzato dagli stati d’animo del momento.
Amo le pellicole che mi emozionano ed a farlo non sono sempre gli stessi film; ad ogni modo attualmente apprezzo molto il cinema di Kaurismaki, di Wong Kar-Wai, di Matteo Garrone ed i fratelli Dardenne.
Tra i miei preferiti da sempre invece posso annoverare Federico Fellini, Tarkowskij, Bunuel, Kusturiça, Antonioni..

A tuo avviso qual è il maggior pregio ed il peggior difetto del cinema italiano?

Il difetto peggiore del cinema italiano è rappresentato dal fatto che tutti vogliono fare tutto, ed ha coinvolto anche me inizialmente, ma ora spero di averlo superato. Il cinema è collaborazione, è partecipazione, e bisogna lasciare spazio a chi ti aiuta; si deve lasciare che sia lo sceneggiatore a scrivere la storia, ed auspicare il ritorno ai mestieri del cinema.
Il pregio invece è che abbiamo una grande scuola pratica e teorica, ossia non ci limitiamo ad essere dei tecnici ma c’è anche un approccio teorico che secondo me è necessario.

Come sarà il tuo prossimo lavoro e di cosa parlerà?
Il mio prossimo film vedremo, intanto lo sto scrivendo assieme a Massimo Gaudioso, che ha sceneggiato Gomorra ed altri film, e Giovanni Miniati, un giovane molto bravo e promettente.

Infine una curiosità personale, ma che è di tanti, leggendo sulle dinamiche che hanno portato alla scelta finale del titolo abbastanza particolari e legate soprattutto ad esigenze distributive, volevo sapere da te se avessi potuto scegliere liberamente un altro titolo, quale sarebbe stato?

Riguardo alla tua curiosità posso dirti che a me piaceva molto Lo stato delle cose ma è un film di Wim Wenders, altrimenti lo avrei voluto chiamare semplicemente Io e te.






giovedì 21 ottobre 2010

Watchmen


Regia di Zack Snyder
Produzione: USA 2009 Universal Pictures
Sceneggiatura: David Hayter, Alex tse
Fotografia: Larry Fong
Montaggio: William Hoy
Scenografie: Alex McDowell
Musiche: Tyler Bates
Genere: Drammatico
Con: Matthew Good, Jackie Earle Haley, Carla Gugino, Billy Crudup
Malin Akerman, Jeffrey Dean Morgan, Patrick Wilson
Durata: 163'




Ottobre 1985. Nixon è stato eletto per la terza volta presidente degli Stati Uniti grazie alla vittoria conseguita nella guerra in Vietnam e sul mondo incombe la minaccia di una guerra nucleare con L’Urss.
L’orologio dell’apocalisse segna cinque minuti a mezzanotte, quando si diffonde la notizia che qualcuno ha ucciso un vecchio supereroe in pensione, il Comico, appartenente alle cosiddette ‘Maschere’ ormai da anni fuorilegge, considerati dei Vigilantes. L’ex guardiano mascherato Rorschach è determinato a svelare un complotto che ritiene sia mirato ad uccidere e screditare tutti i supereroi passati e presenti.
Dopo aver con difficoltà radunato la legione di suoi ex colleghi combattenti contro il crimine: Gufo Notturno, Spettro di seta, Ozymandias e Dottor Manhattan (l’unico ad avere poteri reali), scopre un’ampia ed inquietante cospirazione che ha legami con il loro comune passato, ma soprattutto potrebbe produrre catastrofiche conseguenze nel futuro.
La missione è vegliare sull’umanità, ma chi veglierà sui Watchmen?

Prima di parlare del film è doveroso e quanto meno opportuno considerare la graphic novel Watchmen da cui è tratta, la più celebre ed acclamata di tutti i tempi, che sta al fumetto come la bibbia sta al libro, opera del genio visionario di Alan Moore (disegnata da Dave Gibbons), che considerava “infilmabile” e come nelle precedenti trasposizioni cinematografiche delle sue opere (V per Vendetta, From Hell, La lega degli straordinari gentleman) ha chiesto di non comparire nei crediti e lasciato la sua parte di guadagni a Gibbons.
Ad oggi l’unico fumetto ad aver vinto un Premio Hugo e ad essere inserito nella lista del Time Magazine tra i migliori “100 romanzi in lingua inglese dal 1923 ad oggi” e che ha portato il genere ai massimi livelli espressivi, opera ambiziosa e complessa ed impossibile da analizzare in poche righe.

Di fronte ad un’impresa considerata dallo stesso autore impossibile, che ha avuto una genesi lunga vent’anni, passata e poi sfuggita tra le mani di grandi registi quali Terry Gilliam, Paul Greengrass e Darren Aronofsky, fino ad approdare al talentuoso Zack Snyder, il lavoro si considerava arduo ed impervio sin da subito.
Il regista americano, celebrato nel precedente lavoro 300 , anch’esso tratto da una graphic novel di culto, sembra quasi incerto nel prendersi la responsabilità di trarre ispirazione dal fumetto oppure rimanervi fedele. Optando per una sostanziale fedeltà all’originale, quantomeno nell’immaginario e nelle atmosfere, e venendo meno invece per quanto riguarda la natura dell’opera che nulla aveva di spettacolare, esasperando le scene di azione pur di pagare tributo alla cinematograficità della narrazione, cambiando e dilatando decisamente il finale, poco in linea con la soluzione adottata nella graphic-novel, ma recuperato nella director's cut.

Ciononostante il contributo visivo ed estetico è straordinario, che appaga le atmosfere cupe e violente tipiche di Moore, e che ai più forse risulterà indigesta, in un mondo profondamente immerso nella paranoia imperante degli anni 80, in bilico tra i timori di una guerra nucleare imposti dalla Guerra Fredda ed un mondo i cui eroi sono senza poteri, discriminati ed imperfetti, de-costruendo l’archetipo del supereroe classico; alcune scene sono memorabili grazie ad una colonna sonora azzeccata che esalta i frangenti più coinvolgenti.
Certo è che un pubblico abituato alle magnificenze e spettacolari imprese dei supereroi più celebri del grande schermo, tutto ciò apparirà incomprensibile e distante (specie ai più giovani) compresa la durata sostanziosa della pellicola, il cinismo e lo storicismo di cui è permeata, e la difficile comprensione dovuto all’ampio uso di simboli, dialoghi con diversi livelli d’interpretazione, ucronia, meta-narrazione e l’imponente comparto di temi trattati e riferimenti storici e politici.
In definitiva ne vien fuori un lavoro coraggioso i cui meriti ne costituiscono paradossalmente anche i suoi limiti, a cui manca il guizzo geniale per renderlo un capolavoro ma che ha le caratteristiche proprie di un ottimo prodotto cinematografico, un blockbuster ma d’essai. Impavido




VOTO 7,5

martedì 19 ottobre 2010

A single man


Regia di Tom Ford
Produzione: USA 2009 Archibald film
Sceneggiatura: Tom Ford
Fotografia: Eduard Grau
Scenografie: Dan Bishop
Musiche: Abel Korzeniowski
Genere: Drammatico
Con: Colin Firth, Julianne Moore, Nicholas Hoult
Durata: 101










Los Angeles, 1962. Gli Stati Uniti sono sull'orlo di una crisi nucleare con Cuba ma tutto ciò non sembra turbare minimamente George Falconer (Colin Firth), impeccabile docente universitario che ogni mattino combatte la sua sofferenza per la scomparsa dell'amato compagno Jim, mascherando il suo mal de vivre sotto una patina di abiti firmati, compostezza e buone maniere. Ma il dolore lacerante riaffiora nei momenti più impensabili, attraverso lo scatenarsi di reminescenze emozionali innescate da dettagli apparentemente insignificanti. Per George ogni giorno è una lotta, il suo rapporto con la società è ridotto ai minimi e sembra incapace di proseguire la sua vita, meditando il suicidio. Proveranno a trattenerlo dall'orlo dell'abisso Charley (Julianne Moore) una vecchia amica cinica e disillusa ed un suo giovane studente, Kenny (Nicholas Hoult) che s'invaghisce di lui.

Il celebre stilista Tom Ford esordisce dietro la macchina da presa con un film di difficile impostazione cinematografica trasponendo il bellissimo romanzo di Christoper Isherwood Un uomo solo”, una scelta impervia per un esordiente che proviene perdipiù da tutt'altro mondo ma riesce a stupire tutti, critici e scettici compresi, convincendo e commuovendo alla 66esima mostra internazionale del cinema di Venezia dove il film è stato presentato in concorso.
L'ultimo giorno di un uomo sopraffatto e sconfitto dal suo dolore è narrato con una precisione ed un controllo delle inquadrature impeccabili, degne di un veterano, impreziosite dalla perfezione formale del suo decòr, ma se la cura per i dettagli è preventivabile in quanto rappresenta il suo marchio di fabbrica, ciò che sorprende è la capacita di Ford di incastrare tutti gli elementi cinematografici, costruendo un ingranaggio scenico e filmico sublime, in cui le musiche di Korzeniowski e Umebayashi (In the mood for love) fluttuano sulla fotografia calda e glamour di Eduard Grau regalando attimi d'intesità narrativa e scenica totali ed appaganti. La materia emotiva è sontuosamente interiorizzata da Colin Firth, vincitore meritatamente della Coppa Volpi come miglior interprete, che restituisce lavorando in sottrazione e con sobrietà la profondità di un ruolo complesso, riuscendo ad essere autentico ed intimo evitando di scivolare nel sentimentalismo e nel manierismo.
Dietro la rarefatta eleganza formale del film palpita un cuore cinefilo sensibile e passionale, in cui la sostanza dolorosa della perdita viene assorbita dalla magnificenza dello splendore estetico amalgamandosi con la vacuità della vita. Emozioni sottaciute che quando prendono il volo si librano leggere, fino alle lacrime. Cinema allo stato puro.


VOTO 8


mercoledì 13 ottobre 2010

Adventureland


Regia di Greg Mottola
Titolo originale: Adventureland
Produzione: USA 2009 Walt Disney
Sceneggiatura: Greg Mottola
Fotografia: Terry Stacey
Scenografie: Stephen Beatrice
Musiche: Yo la Tengo
Genere: Commedia
Interpreti: Jesse Eisenberg, Kristen Stewart, Martin Starr, Bill Hader, Ryan Reynolds
Data di uscita: 10/07/2009
Durata: 107’



Esce in piena stagione estiva, solitamente avara di pellicole interessanti, il nuovo film del promettente Greg Mottola, che con la sua opera prima Suxbad – Tre menti sopra il pelo aveva sbancato il botteghino americano ottenendo un discreto successo anche dalle nostre parti. Certo è che la Disney non deve aver creduto molto nella pellicola, che paga la scarsa visibilità del misero afflusso estivo verso le sale, nonostante si dimostri un piccolo romanzo di formazione romantico davvero delizioso.

Brennan (Jesse Eisenberg) è il tipico nerd americano, fresco di diploma si trova costretto a causa delle ristrettezze finanziarie familiari ad abbandonare i sogni di gloria di un estate di bagordi in Europa, ed a lavorare presso un Luna Park fatiscente e sfigato di Pittsburg, (l’Adventurland del titolo) per poter mettere da parte un po’ di risparmi per il college. Qui avrà modo di conoscere l’affascinante ed incasinata Em (Kristen Stewart) anche lei addetta ai giochi del parco, il musicista tuttofare Connell (Ryan Reynolds) e l’esuberante titolare del parco Bobby (Bill Hader) che gli regaleranno un’estate intensa difficile da dimenticare.

Attingendo di nuovo dalla sua storia personale, Mottola (che lavorò davvero nell’87 in un piccolo parco di Pittsburg chiamato Adventureland) scrive e dirige con sentimento e delicatezza un piccolo compendio di commedia romantica immerso nell’atmosfera reganiana, limitandosi a raccontare con arguzia e leggerezza il classico percorso di formazione del passaggio dalla giovinezza all’età adulta che il cinema ha ampiamente saccheggiato, forte però di uno script dai dialoghi ironici e taglienti, impreziosito da un cast giovane e talentuoso sui quali spiccano lo stralunato Eisenberg (già visto ne piccolo film indipendente Il calamaro e la balena), la star di Twilight, Kristen Stewart ed il sempre bravo, seppur sottovalutato, Ryan Reynolds; noto ai più forse maggiormente come marito della splendida Scarlett Johansson che per le sue doti recitative.
Nonostante tutta la pellicola sia costantemente pervasa dalla tipica sensazione di già visto, ha il pregio della sensibilità e della tenerezza malinconica dello sguardo disincantato, buonista ma mai retorico, dal sapore nostalgico delle vecchie commedie adolescenziali old-style, intriso di una colonna sonora composta di Hit dell’epoca che ben richiamano il sentimento crepuscolare e divertente dello Smell Like Teen Spirit che tutti rimpiangiamo.
Una piccola oasi rinfrescante nell’arido deserto estivo cinematografico.

VOTO 7,5

domenica 10 ottobre 2010

Inception


Regia di Christoper Nolan
Produzione: USA 2010 Warner Bros
Sceneggiatura: Christoper Nolan
Fotografia: Wally Pfister
Scenografie: Guy Hendrix Dyas
Musiche: Hans Zimmer
Genere: Drammatico, Azione
Con: Leonardo Di Caprio, Ken Watanabe, Marion Cotillard
Durata: 148’






Dom Cobb (Leonardo Di Caprio) è un abile ladro nell'arte dell'estrazione di informazioni dal profondo subconscio durante l'attività dello stato onirico, quando la mente è maggiormente vulnerabile. La sua figura è alquanto ricercata nell'ambito dello spionaggio industriale internazionale, ma ciò ha comportato anche la perdita della sua famiglia e di ciò che ha amato. Proprio per cercare di riconquistare i suoi figli accetterà la missione propostagli dall'industriale giapponese Saito (Ken Watanabe) e tenterà un'impresa improba, l'inception del titolo ossia il tentativo non di rubare informazioni bensì di innestare un'idea all'interno della mente di Robert Francis Jr. (Cillian Murphy), figlio ereditario di un colosso finanziario con lo scopo di frammentarne la società. Ma dovrà fare i conti con il suo passato sepolto nel suo inconscio, rappresentato dalla moglie Mal (Marion Cotillard).

Dopo i fasti della sua ultima pellicola, Batman - Il cavaliere oscuro il regista di culto Christopher Nolan (Memento/The Prestige) riesce a dar corpo al suo progetto più ambizioso e personale, su cui era a lavoro da dieci anni. Doveva essere un piccolo progetto ma l'hype che gira intorno alla sua figura di regista “atipico” che riesce a far coincidere film d'autore con gli incassi ai botteghini, ha fatto sì che le major lo coccolassero e gli dessero ampia libertà, un cast sontuoso ed un budget stratosferico per costruire il suo complesso puzzle visionario.

Il regista americano qui è alla sua prima prova senza l'ausilio del fratello Jonah alla sceneggiatura, un lavoro concepito e realizzato a cerchi concentrici, volutamente artificioso e sovradimensionato che mette a dura prova lo spettatore, soprattutto quello non abituato alle tortuosità degli script di Nolan. Una volta immersi però nel mondo e le atmosfere tipiche del suo registro stilistico tutto diviene apparentemente più nitido, salvo ritrovarsi nuovamente storditi dinanzi al solito gioco di specchi creato ad arte dalla penna del regista che non fa nulla per mitigare il senso di smarrimento che s'impadronisce di coloro che osservano lo svolgersi della narrazione tesa a disorientare negli intenti dell'autore che sulla perdita d'orientamento del pubblico ha costruito il suo cinema e da qui deriva tutto il suo fascino.
Fin qui nulla da eccepire, un articolato lavoro di sceneggiatura che s'innesta però sul tentativo dichiarato di combinare il cosidetto genere heist movie (film di rapina) con la sci-fi di matrice onirica, ed è qui che sorgono alcune perplessità. Tutta l'articolazione narrativa così affascinante ed elegantemente trasmessa si piega di fronte alle scene d'azione che finiscono per prendere il sopravvento nel plot narrativo esautorando tutto il lavoro certosino svolto in precedenza. Da non sottovalutare le simbologie nascoste nel film a partire dai nomi dei personaggi che rievocano personaggi mitologici o biblici (il nome del protagonista Cob sta per Giacobbe, Arianna che ha il ruolo dell'architetto è presa dalla “mitica” figlia di Teseo, quella del celebre filo per intenderci, e così via).

Il merito di Nolan è di aver costruito un mondo onirico, senza tuttavia abbandonarsi dalla materia instabile e sfuggente propria dei sogni, bensì scegliendo di imporre al subconscio una vera e propria grammatica, con le sue regole e le sue leggi, rendendo il tutto coerente ma soprattutto filmabile, dando una forma ed una logica ad un universo astratto ed illogico per natura. Nonostante quasi tutta la vicenda sia ambientata all'interno di un mondo onirico infatti non si ha la sensazione di sentirsi all'interno di posti creati dalla mente.
Vi è sottotraccia anche il parallelismo con il processo creativo cinematografico, che si compone con la stessa sostanza del lavoro onirico, ma ciò che più conta in questo intricato labirinto mentale è il controllo con il quale Nolan gestisce l'intera impalcatura narrativa ricostruita perfettamente con il suo gioco d'incastri che si rivela però così perfettamente congegnata quanto fredda e priva di quel palpito emotivo che pur ci si aspetta dalle sue pellicole. Qui lo scarto è più evidente che altrove ed il film ne risente, come a dire troppa cerebralità e poco cuore.
Dettagli che sembrano pagliuzze ininfluenti negli occhi del grande pubblico ma travi evidenti per i suoi fan più accaniti.

VOTO 7

venerdì 8 ottobre 2010

Rachel sta per sposarsi


Regia di Jonathan Demme
Titolo originale: Rachel get married
Produzione: USA 2008 Sony Pictures
Sceneggiatura: Jenny Lumet
Fotografia: Declan Quinn
Musiche: Donald Harrison Jr.
Genere: Drammatico
Con: Anne Hataway, Rosemarie Dewitt, Bill Irwin, Debra Winger, Tunde Adebimpe
Data di uscita: 28/04/2009
Durata: 108’



Kym (Anne Hataway) in occasione del matrimonio della sorella Rachel (Rosemarie Dewitt) con il musicista di colore Sydney (Tunde Adebimpe) esce dal centro di riabilitazione in cui per l’ennesima volta è relegata per disintossicarsi dalle droghe. In un clima di festa ed intimità la famiglia si troverà di nuovo ad affrontare i fantasmi del passato che l’hanno lacerata, con al centro Kym come capro espiatorio.

Il regista newyorkese JonathanDemme, premio oscar nel 1992 con Il silenzio degli innocenti, dopo gli ultimi anni passati in giro per il mondo a girare i suoi toccanti documentari, torna al lungometraggio grazie alla sceneggiatura della esordiente Jenny Lumet, figlia del celebre regista Sydney. Il taglio documentaristico permane in questa pellicola che si affida perlopiù al digitale citando la lezione dogmaniana di Von Trier, ed omaggiando in particolare il cinema corale di Robert Altman e Roger Corman, ringraziati anche nei titoli di coda.

Quello che stupisce ed appassiona e la naturalezza degli interpreti e la fluidità della narrazione che stabilisce sin da subito un contatto intimo ed empatico con lo spettatore che si trova coinvolto in prima persona nelle vicende sciorinate, come uno qualsiasi degli invitati al matrimonio. Per riuscire ad ottenere questo effetto e rendere il tutto realistico e credibile, Demme gira nella sua casa con i suoi veri amici e con autentici musicisti, senza una vera sceneggiatura e totale libertà d’ispirazione per le musiche che accompagnano con le loro note diegetiche i dialoghi e le inquadrature composte al momento sul posto, senza una successiva post-produzione per quanto concerne la colonna sonora. Gli attori si muovono con scioltezza e disinvoltura naturale in questo contesto, che diventa un toccante teatro filmato costruito in progressione, senza punti di riferimento per le inquadrature, in quanto il regista volutamente sceglie diverse telecamere che circondano gli interpreti amalgamandosi con discrezione, restituendo all’occhio dello spettatore il calore (non solo visivo) prodotto da tale vicinanza.

In questo clima artistico gli attori svolgono egregiamente il loro ruolo con interpretazioni davvero notevoli, superbe a tal proposito le prove della Dewitt e Irwin, ossia la Rachel del titolo ed il padre, mentre una citazione a parte merita la strepitosa Hateway, che qui dimostra tutto il suo talento in un ruolo intenso e drammatico, meritandosi la candidatura agli oscar.
E’ un film passato ingiustamente sottotono nelle sale italiane da recuperare assolutamente, capace di emozionare facendo vibrare la fibre più intime, senza barare o forzature tipiche di tante pellicole hollywoodiane che saggiamente distribuisce ironia e drammaticità, poggiato su di una sceneggiatura di livello nonostante opera prima della giovane Lumet ed impreziosito da una splendida cornice filmica quasi artigianale degna di un piccolo capolavoro. Sublime.

VOTO 8

martedì 5 ottobre 2010

Two lovers


Regia di James Gray
Produzione: USA 2008 Bim
Sceneggiatura: James Gray, Ric Menello
Fotografia: Joaquin Basa-Asay
Genere: Drammatico
Con: Joaquin Phoenix, Gwyneth Paltrow, Vinessa Shaw, Isabella Rossellini, Moni Moshonov
Data di uscita: 27/03/2009
Durata: 100








Dopo la trilogia malavitosa iniziata con Little Odessa, proseguita poi con The Yard e i Padroni della notte presentato a Cannes nel 2007 Julian Gray spiazza tutti e si cimenta con il genere sentimentale, progetto alquanto impervio e complicato dimostrando tutte la sua duttilità cinematografica nonché il suo tangibile talento.
In Two Lovers il regista e sceneggiatore americano torna nei luoghi a lui cari, e precisamente Brighton Beach nei pressi di Brooklyn a New York avvalendosi ancora una volta del suo attore feticcio Joaquin Phoenix, fratello del compianto River, per narrare la delicata storia di Leonard (Joaquin Phoenix), che torna a vivere con i suoi genitori dopo un fallimento amoroso ed un tentato suicidio. Una volta tornato nel luogo natio ed in cura antidepressiva, incontra due donne molto diverse tra loro: Sandra (Vinessa Shaw), figlia di un uomo d’affari ed amico di famiglia intenzionato a rilevare l’attività del padre, e Michelle (Gwyneth Paltrow), tormentata ed affascinante vicina di casa, amante di un facoltoso avvocato.

Con lirico rigore Gray racconta i drammi sentimentali dell’uomo moderno traendo ispirazione da un racconto di Dostoevskij Le notti bianche, affidando le sorti della narrazione ad un punto di vista intimo, notturno e reale, scandagliando il mal de vivre di un uomo ferito che torna ad innamorarsi e lentamente alla vita, prima di lasciarsene nuovamente sopraffare. Per una volta l’amore non è oggetto di commedia sentimentale a lieto fine, ma ha il sapore amaro della resa, della delusione e delle lacrime senza patetismi retorici o urlati delle tragedie. Lo sguardo della cinepresa è garbato, sommesso quasi celato, scegliendo le atmosfere notturne e anonime, per narrare tutte le contraddizioni sentimentali e le sue imprevedibili pieghe con il tocco disarmante della leggerezza riuscendo ad orchestrare il gioco intimista delle parti, con uno stile che evita i cliché insinuando la disperata quietezza della vita capace di riverberare malinconie e illusioni, degni di un poema visivo che si evidenzia per finezza, penetrazione emotiva ed intensità, grazie anche all’ennesima superlativa prova di Phoenix ed una convincente e seducente Paltrow. Un dramma amoroso contemporaneo, minimalista e sofferto e per questo un film raro ed imponente nella sua semplicità.

VOTO 7,5

lunedì 27 settembre 2010

Fratelli in erba


Regia di Tim Blake Nelson

Produzione: USA 2010 Eagles Pictures

Sceneggiatura: Tim Blake Nelson

Fotografia: Roberto Schaefer

Scenografie: Maria Nay

Musiche: Jeff Danna

Genere: Drammatico

Con: Edward Norton, Tim Blake Nelson, Susan Sarandon

Durata: 105’




Bill e Brady sono due gemelli identici nell'aspetto ma quanto più possibile diversi nella sostanza. Entrambi educati da una madre sessantottina e orfani di padre, affrontano la vita con due diverse concezioni e stili di vita. Brady rimane con la madre in Oklahoma, diventando un coltivatore di marijuana, mentre Bill intraprende la carriera universitaria come brillante professore di filosofia classica, obliando nel cassetto dei ricordi e senza troppi rimorsi la propria famiglia. Quando Bill riceverà la notizia della morte del fratello si troverà costretto a tornare a Little Dixie, il paese natìo dove dovrà confrontarsi con il proprio passato ed i suoi cari.


Tutto fa presagire ad una classica commedia degli equivoci, a partire dal titolo storpiatamente tradotto dall'originale Leaves of grass che sta sì per “foglie d'erba” ma allude al titolo di una raccolta di Walt Whitman, e proseguendo con il doppio ruolo in cui Edward Norton si cimenta, topos classico di tanto cinema che farebbe pensare ad una serie infinta di gag e situazioni paradossali, ed in un certo senso è così ma il film di Tim Blake Nelson mira più in alto. Infatti se la prima parte sembra confermare le impressioni iniziali, nel proseguio il tono da commedia si sporca sorprendentemente di noir di matrice tarantiniana e dalle atmosfere tipicamente coheniane.

Uno dei pregi di questa pellicola oltre al ritmo sincopato che coinvolge lo spettatore è rappresentato dall'ottimo cast in cui figurano la sempreverde Susan Sarandon nel ruolo della madre ex sessantottina, l'affascinante Keri Russel nei panni di una poetessa e l'irresistibile Richard Dreyfuss, lui che è ebreo sul serio, si diverte nella parte di un ebreo stereotipato. Lo stesso regista si ritaglia un ruolo interessante, interpretando Bolger uno dei migliori amici del fratello coltivatore.


La ricerca dell'equilibrio è la chiave di lettura dell'intera pellicola - tra Socrate e Whitman, tra caos e spontaneità, commedia e tragedia e la perenne ricerca della condizione di pace interiore e la sua natura illusoria - dando modo al regista di giocare con le aspettative degli spettatori mirando a spiazzarli innestando una serie di colpi di scena memorabili, farciti con dialoghi che spaziano dalla filosofia, alle droghe, alla poesia fino al non-sense.

Un piccolo film ambizioso che deve forse fin troppo alla sottile ironia ebraica di cui i fratelli Cohen sono i maggiori esponenti ma che riesce a ricavarsi uno scorcio di originalità fresca e ben costruita che non soffoca la pellicola evitando di farla cadere nel facile clichè del genere.


VOTO 6,5

mercoledì 22 settembre 2010

La solitudine dei numeri primi


Regia di Saverio Costanzo

Produzione: ITA 2010 Medusa

Sceneggiatura: Saverio Costanzo, Paolo Giordano

Fotografia: Fabio Cianchetti

Scenografie: Antonello Geleng

Musiche: Mike Patton

Genere: Drammatico

Con: Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Isabella Rossellini

Durata: 118’




Alice e Mattia, due coetanei le cui esperienze tragiche vissute nell'infanzia producono un trauma che non li abbandonerà mai, influenzando in modo pesante e permanente le loro vite. Potrebbero amarsi, si sfiorano e si separano. Non consentono a se stessi di ritrovarsi ed insieme concedersi ciò che si sono sempre vietati ed inflitti. Come due numeri primi sono divisibili solo per uno o per se stessi e quindi destinati alla solitudine.

Saverio Costanzo (Private / In memoria di me) porta in concorso a Venezia l'attesa trasposizione cinematografica del celebre romanzo d'esordio di Paolo Giordano (che partecipa alla sceneggiatura) - caso letterario del 2008 con più di un milione di copie vendute, nonché premio Strega e Campiello - ma sin da subito se ne discosta dalle atmosfere e nella materia portante, destrutturandolo a partire dalla linearità narrativa che si alterna con continui salti temporali incentrati su tre periodi fondamentali delle vite grevi di Alice e Mattia.

La cifra stilistica adottata da Costanzo è netta e coraggiosa, una vicenda sentimentale tinteggiata di horror che s'innesta sin dalle prime battute - evidenziata da una colonna sonora curata da Mike Patton e sottolineata con una grafica ridondante - che sembra alludere a certe tensioni tipiche dei film di Dario Argento. Lo sguardo del regista si concentra sui corpi, deturpati e feriti, che mutano e e si plasmano in base al loro dolore, assurgendoli a veri protagonisti della vicenda, interpretati da una stupefacente Alba Rohrwacher e la sorpresa Luca Marinelli che imprimono sui loro corpi le fatiche di esigenze di copione estreme, donando veridicità assoluta ai loro personaggi.

Appare inevitabile che un autore così perentorio, con uno stile aspro e antinaturalistico che bandisce ogni sfumatura renda la pellicola estrema, cozzando con la materia scottante della popolarità del romanzo e ne risulti indebolita. Dall'altro canto le soluzioni adottate dal regista romano risultano affascinanti e farcite con dosi massicce di pathos e suspance che imprimono alla pellicola un sapore evocativo barocco e attraente, ma tutto rimane soffocato e imprigionato nella ricerca autoriale ed originale quasi ossessiva, finendo per implodere in se stesso.

Data la sua scelta di campo perentoria e precisa che deve far i conti con il peso specifico di una vicenda letteraria tanto amata, il film è destinato a dividere. L'abilità registica di Costanzo è palpabile e non ne esce intaccata, con angolazioni atipiche su tonalità cupe, impreziosite da stacchi netti e commenti sonori magistrali, ma viene sommersa dalla complessità psicologica del romanzo e dalla sua carica emotiva che si disperde lungo il racconto cinematografico discostandosene inesorabilmente.


VOTO 6









venerdì 3 settembre 2010

The Box



Regia di Richard Kelly

Produzione: USA 2009 Lucky Red

Sceneggiatura: Richard Kelly

Fotografia: Steven Poster

Scenografie: Alexander Hammond

Musiche: Owen Pallett

Genere: Thriller

Con: Cameron Diaz, James Mardsen, Frak Langella

Durata: 115’




USA, Virginia 1976. I coniugi Lewis si trovano in difficoltà economiche ma hanno la possibilità di ovviare ai loro problemi grazie ad una strana scatola consegnata il giorno prima da uno sconosciuto con il volto sfigurato, il signor Edwards. Lo strano individuo offre alla coppia un milione di dollari nel caso in cui nel giro di ventiquattro ore decidessero di premere il pulsante posto sulla scatola, conseguentemente però una persona a loro sconosciuta, nel mondo, morirà. In caso contrario, avrebbero solamente 100 dollari come rimborso per il disturbo recato, e la scatola verrebbe riprogrammata e proposta altrove.


Il talentuoso Richard Kelly, autore del film cult degli anni zero Donnie Darko, dopo l'ambizioso e deludente Southland Tales, flop al botteghino ed uscito solo in dvd da noi, ci riprova adattando per il grande schermo un racconto breve del geniale autore e sceneggiatore Richard Mateson, autore di quel Io sono leggenda trasposto al cinema qualche anno fa con protagonista Will Smith. Lo stesso script dell'autore è stato proposto negli anni 80 per il piccolo schermo nella famosa serie Ai confini della realtà. Kelly cerca di far sue le atmsofere paranoiche e claustrofobiche tipiche di Matheson - acuto e cinico indagatore dei limiti della morale e avidità umana- ma con scarsi risultati. L'impianto narrativo regge solo nella prima parte della pellicola, per poi perdere completamente il controllo successivamente ed impantanarsi infine in un pasticcio incomprensibile e patetico collocandosi a metà tra cinema di genere e film d'autore.

La qualità delle inquadrature è indiscutibile, ottime le scenografie e l'inquietante colonna sonora. A mancare qui non è certo l'impalcatura tecnica ma l'omogeneità narrativa che, noncurante della consequenzialità e logicità della storia, snatura e stravolge completamente l'intento dell'opera originale di Matheson, sfociando in grottesche scimmiottature alla Lynch, brancolando e barcollando in un accumulo di situazioni e stereotipi da fantascienza retrò, infarcendoli con discorsi filosofici sul libero arbitrio ed etica, tirando in causa persino Arthur C. Clarke e Jean Paul Sartre. Non aiutano e convincono oltremodo le interpretazioni degli impalpabili Cameron Diaz e James Marsden, e tocca al solito Frank Langella reggere la baracca recitativa.

Il plot narrativo viene risucchiato nella spirale della confusione e della noia, sprecando quanto di buono l'incipit aveva creato, con un occhio rivolto a certi film horror di culto anni 70. D'altronde la materia trattata si è rivelata nuovamente troppo ambiziosa e ricca di elementi, sfuggendo completamente al controllo del giovane regista americano che cerca di impreziosire con un lezioso egocentrismo autoriale che alla lunga stanca ed irrita. Ulteriore banco di prova mancato per uno dei più promettenti enfant prodige del nuovo cinema americano.


VOTO 5 Inconcludente


giovedì 24 giugno 2010

The Road


Regia di John Hilcoat

Produzione: USA 2009 Videa

Sceneggiatura: Joe Penhall

Fotografia: Javier Aguirresarobe

Scenografie: Robert Greenfield

Musiche: Nick Cave, Warren Ellis

Genere: Drammatico

Con: Viggo Mortensen, Kodi Smith-McPhee, Charlize Theron

Durata: 111’



La struggente storia di un padre e del proprio figlio costretti a sopravvivere in un mondo retrocesso ad uno stato primordiale post-apocalittico ed un'umanità che deve fare i conti con le conseguenze della propria feroce natura, sono alla base del bellissimo romanzo dello scrittore statunitense Cormac McCarthy, vincitore del premio Pulitzer nel 2007 e la cui trasposizione sul grande schermo è stata affidata al talentuoso outsider John Hilcoat (The Proposition) che ne dirige un adattamento fedele e crudele aderendo alle atmosfere gelide ed aspre presenti nell'universo letterario di McCarthy.


Di fronte alla compattezza narrativa e lo stile asciutto del romanzo, il regista australiano sceglie saggiamente di eclissarsi mettendosi al servizio della storia, sorretta come un titano mitologico dall'interpretazione eccelsa di Viggo Mortensen, mai così bravo, mai così intenso, qui alla sua prova migliore. Ambientazioni desolate e suggestive carrellate sui cupi scenari di un mondo che muore lentamente, fanno da cornice ai sofferti tentativi di un padre di proteggere il figlio da una vita che non ha più un futuro da offrire. Unica concessione di dolcezza è riservato al ricordo, negli inserti onirici memori di un passato recente che sferza più che alleviare.

E' un film cupo e intenso, che fa male, come ogni cosa sublime che squarcia le resistenze della nostra integrità e ci mette a nudo. Dopo essere stato accolto lo scorso anno alla Mostra del cinema di Venezia è stato a lungo tenuto lontano dai nostri schermi perché ritenuto dai produttori una pellicola troppo triste.

L'unica tristezza è che in un'Italia di cinepanettoni e moccianate le perle siano ricacciate nell'oceano e che continuino a brillare sottotraccia solo per i pochi che si immergono a scovarle, l'unica consolazione è che nell'imbarbarimento culturale di questa epoca, cinema compreso, la loro luce ci ricorda che c'è ancora una bellezza a questo mondo. Purché rara e purché celata. Forse l'unica maniera di possibile.



VOTO 8